mercoledì 8 luglio 2009
venerdì 3 luglio 2009
La moda spettacolo come mezzo di comunicazione
Nel 1996 Yves Saint Laurent lo chiamava il "circo fantasmagorico dei defilè" e, indignato, decideva di presentare la collezione a casa propria.Gossip e mondanità cannibalizzavano la moda già dieci anni fa e, a rimetterci era l'abito. Non ci mise molto a capirlo il grande couturier francese che, per primo, volle dare l'esempio e voltare le spalle a una realtà, quella delle sfilate, che si riduceva a un mero spettacolo, ad uno show concepito perché televisione e media potessero puntare su di esso i propri riflettori. Non era l'unico a pensarla in questo modo. Persino il Re, Giorgio Armani, in un articolo comparso su Repubblica nel lontano 1995 dichiarava che «si continua a voler stupire, dimenticando i valori della moda». E faceva notare che la competitività fra stilisti si andava perdendo per dare spazio alle provocazioni, alla voglia di stupire e agli avvenimenti di contorno. «Dove si arriverà?» si chiedeva lo stilista. Dove siamo arrivati oggi è più che evidente. Basta guardare all'ultima settimana della moda milanese per capire come lo spettacolo della moda, che un tempo si manifestava nelle ricercate fogge, oggi si esplicita nelle prime file delle passerelle. Se dieci anni fa gli stilisti si fronteggiavano a colpi di abiti, oggi fanno a gara a chi mette in scena lo show più chiacchierato. E così Roberto Cavalli si mette a giocare con le bambole, vestendo le Spice Girl per il loro tour e ospitandole, naturalmente, alla propria sfilata. E mentre Donatella Versace continua a mandare in passerella centinaia di chiome bionde per convincere il mondo che lei è icona di stile, Dolce & Gabbana attirano l'attenzione sul clima mondano del dopo passerella al "Gold", il loro ristorante.La moda è sempre stata un mezzo di comunicazione. Secoli di storia narrano come l'abito sia lo specchio della società e come le fogge siano state occasione di spettacolo. Ma di uno spettacolo insito nell'abito. Nel 1964 Pierre Cardin faceva l'allegoria del cambiamento sociale facendo sfilare una serie di abiti futuristici fatti di materiali inorganici in una collezione denominata "Era Spaziale". Ed era stupore. Negli anni ‘70 Issey Miyake introduceva un concetto: quello di coprire il corpo con un unico pezzo di stoffa che cambia forma a seconda dell'individuo, perché ogni essere umano è unico.
Negli anni ‘80 Yohji Yamamoto esprimeva il proprio senso di assenza attraverso abiti strappati e privi di decorazioni, mentre Martin Margiela rappresentava il suo dissenso nei confronti del sistema moda riciclando le sue precedenti collezioni. La lista degli stilisti che, come quelli sino a qui citati, hanno messo in scena uno spettacolo per comunicare un concetto attraverso l'abito è molto lunga. Da Paco Rabanne ad Alexander McQueen a Jean-Paul Gaultier a Vivienne Westwood a Thierry Mugler la teoria si allunga a dismisura. Un elenco che si cosparge di polvere di stelle e che è opportuno interrompere per non dare adito a lacrime di commozione nostalgica. Siamo realisti: guardiamo alle passerelle di oggi, che sono tutt'altra cosa. Molti stilisti sembrano seguire dei veri e propri manuali di marketing e tecniche di comunicazione prima di mandare in scena una collezione. Lo scopo è chiaro: colpire il pubblico, comunicare e, magistralmente, ad ogni costo, sublimare.La moda diventa spettacolo, panem et circenses della società dei consumi, dove il trofeo spetta a colui che trova il modo più geniale per persuadere. Dove succede che qualcuno sceglie di trasformare in passerella persino la Grande Muraglia Cinese, portando sugli schermi di tutto il mondo molto più che uno straordinario show. Essì, perché quelle strepitose modelle che sembrano "tacchettare" frivole sopra secoli di storia, sono in realtà allegoria di un futuro prossimo in cui nulla è impossibile. Un futuro dove le ricostruzioni scenografiche di John Galliano rischiano di restare un ricordo romantico e mellifluo, e dove l'impegno sociale e politico di Vivienne Westwood viene surclassato da eventi mediatici di risonanza mondiale. Non è difficile che il motto "No art, no progres" della stilista punk inglese passi in secondo piano nell'agenda setting dello spettatore, affascinato da forme tutte nuove di spettacolarizzazione della realtà.
Quando persino Ground Zero diventa background di brindisi post "front row", è chiaro che la voglia di dimenticare supera di gran lunga la lotta sociale. Come è chiaro che i disastri mondiali si trasformano tristemente in semplice memorabilia per un nuovo e irriverente spettacolo.
Nel 1996 Yves Saint Laurent lo chiamava il "circo fantasmagorico dei defilè" e, indignato, decideva di presentare la collezione a casa propria.Gossip e mondanità cannibalizzavano la moda già dieci anni fa e, a rimetterci era l'abito. Non ci mise molto a capirlo il grande couturier francese che, per primo, volle dare l'esempio e voltare le spalle a una realtà, quella delle sfilate, che si riduceva a un mero spettacolo, ad uno show concepito perché televisione e media potessero puntare su di esso i propri riflettori. Non era l'unico a pensarla in questo modo. Persino il Re, Giorgio Armani, in un articolo comparso su Repubblica nel lontano 1995 dichiarava che «si continua a voler stupire, dimenticando i valori della moda». E faceva notare che la competitività fra stilisti si andava perdendo per dare spazio alle provocazioni, alla voglia di stupire e agli avvenimenti di contorno. «Dove si arriverà?» si chiedeva lo stilista. Dove siamo arrivati oggi è più che evidente. Basta guardare all'ultima settimana della moda milanese per capire come lo spettacolo della moda, che un tempo si manifestava nelle ricercate fogge, oggi si esplicita nelle prime file delle passerelle. Se dieci anni fa gli stilisti si fronteggiavano a colpi di abiti, oggi fanno a gara a chi mette in scena lo show più chiacchierato. E così Roberto Cavalli si mette a giocare con le bambole, vestendo le Spice Girl per il loro tour e ospitandole, naturalmente, alla propria sfilata. E mentre Donatella Versace continua a mandare in passerella centinaia di chiome bionde per convincere il mondo che lei è icona di stile, Dolce & Gabbana attirano l'attenzione sul clima mondano del dopo passerella al "Gold", il loro ristorante.La moda è sempre stata un mezzo di comunicazione. Secoli di storia narrano come l'abito sia lo specchio della società e come le fogge siano state occasione di spettacolo. Ma di uno spettacolo insito nell'abito. Nel 1964 Pierre Cardin faceva l'allegoria del cambiamento sociale facendo sfilare una serie di abiti futuristici fatti di materiali inorganici in una collezione denominata "Era Spaziale". Ed era stupore. Negli anni ‘70 Issey Miyake introduceva un concetto: quello di coprire il corpo con un unico pezzo di stoffa che cambia forma a seconda dell'individuo, perché ogni essere umano è unico.
Negli anni ‘80 Yohji Yamamoto esprimeva il proprio senso di assenza attraverso abiti strappati e privi di decorazioni, mentre Martin Margiela rappresentava il suo dissenso nei confronti del sistema moda riciclando le sue precedenti collezioni. La lista degli stilisti che, come quelli sino a qui citati, hanno messo in scena uno spettacolo per comunicare un concetto attraverso l'abito è molto lunga. Da Paco Rabanne ad Alexander McQueen a Jean-Paul Gaultier a Vivienne Westwood a Thierry Mugler la teoria si allunga a dismisura. Un elenco che si cosparge di polvere di stelle e che è opportuno interrompere per non dare adito a lacrime di commozione nostalgica. Siamo realisti: guardiamo alle passerelle di oggi, che sono tutt'altra cosa. Molti stilisti sembrano seguire dei veri e propri manuali di marketing e tecniche di comunicazione prima di mandare in scena una collezione. Lo scopo è chiaro: colpire il pubblico, comunicare e, magistralmente, ad ogni costo, sublimare.La moda diventa spettacolo, panem et circenses della società dei consumi, dove il trofeo spetta a colui che trova il modo più geniale per persuadere. Dove succede che qualcuno sceglie di trasformare in passerella persino la Grande Muraglia Cinese, portando sugli schermi di tutto il mondo molto più che uno straordinario show. Essì, perché quelle strepitose modelle che sembrano "tacchettare" frivole sopra secoli di storia, sono in realtà allegoria di un futuro prossimo in cui nulla è impossibile. Un futuro dove le ricostruzioni scenografiche di John Galliano rischiano di restare un ricordo romantico e mellifluo, e dove l'impegno sociale e politico di Vivienne Westwood viene surclassato da eventi mediatici di risonanza mondiale. Non è difficile che il motto "No art, no progres" della stilista punk inglese passi in secondo piano nell'agenda setting dello spettatore, affascinato da forme tutte nuove di spettacolarizzazione della realtà.
Quando persino Ground Zero diventa background di brindisi post "front row", è chiaro che la voglia di dimenticare supera di gran lunga la lotta sociale. Come è chiaro che i disastri mondiali si trasformano tristemente in semplice memorabilia per un nuovo e irriverente spettacolo.
sabato 30 maggio 2009
L’idea di partenza è che la moda sia
un fatto sociale ed economico che in quanto tale riunisce
due mondi apparentemente distanti tra loro: la creatività e
il consumo.
Da un lato appartiene dunque all’universo dell’arte,
della creatività, della libertà d’espressione incondizionata;
dall’altro fa parte di un complesso sistema economico,
sempre più affollato, sempre più competitivo.
Nonostante i suoi prodotti, nel migliore dei casi,
siano destinati a durare al massimo sei mesi, essa è in
grado di raccontare stili di vita, rappresentare simboli di
appartenenza, soddisfare dei bisogni, realizzare desideri,
creare valore.
La comunicazione è emersa quale leva strategica di
maggiore importanza per le imprese della moda.
Essa non si accontenta più di coprire un semplice
ruolo di variabile dell’offerta, ma mostra un certo grado di
autonomia e uno slancio creativo grazie anche al “fattore
marca” che dà al prodotto un senso e un’esistenza
immateriale e discorsiva. Essa deve essere in grado di
raccontare storie credibili, attinenti e costanti nelle quali il
consumatore può immedesimarsi.
La comunicazione di moda fa uno sforzo passando
dalla comunicazione del prodotto a quella di un’identità.
L’impresa comunica, cioè, attraverso il proprio
mondo, sulla base della propria identità mirando
all’attenzione e al riconoscimento del consumatore finale.
Elemento chiave è il concetto di shopping
experience: il rapporto tra marca e consumatore si
istituisce e si rafforza grazie ad una relazione che passa
attraverso la proposta di vissuti inediti e l’attivazione di
diversi canali di comunicazione e forme di linguaggio più
sofisticate, allusive, deduttive che riescono e rendere
tangibile il mondo della marca.
Di questa esperienza il prodotto rappresenta spesso
solo un tassello, all’interno di un più generale ambiente
comunicativo che deve essere in grado si sedurre i sensi e
stimolare la mente. Quest’ultimo è costituito
principalmente dal moderno punto di vendita, inedito
teatro del nuovo shopping postmoderno e canale
alternativo per contattare un consumatore dai bisogni
molteplici e a rischio di overdose informativa.
Per distinguersi dalla massa ed avere successo è
indispensabile fornire al cliente l’opportunità di vivere
esperienze nuove, accogliendolo in luoghi familiari ed
emotivamente coinvolgenti, spazi relazionali e di svago,
in grado di attirare l’attenzione per la forte personalità di
cui godono..
Emerge, dunque, la necessità di trarre il massimo
vantaggio possibile dall’enorme potenziale di
comunicazione costituito dal punto di vendita, sempre più
spesso considerato dalle stesse imprese risorsa intangibile
di immagine.
un fatto sociale ed economico che in quanto tale riunisce
due mondi apparentemente distanti tra loro: la creatività e
il consumo.
Da un lato appartiene dunque all’universo dell’arte,
della creatività, della libertà d’espressione incondizionata;
dall’altro fa parte di un complesso sistema economico,
sempre più affollato, sempre più competitivo.
Nonostante i suoi prodotti, nel migliore dei casi,
siano destinati a durare al massimo sei mesi, essa è in
grado di raccontare stili di vita, rappresentare simboli di
appartenenza, soddisfare dei bisogni, realizzare desideri,
creare valore.
La comunicazione è emersa quale leva strategica di
maggiore importanza per le imprese della moda.
Essa non si accontenta più di coprire un semplice
ruolo di variabile dell’offerta, ma mostra un certo grado di
autonomia e uno slancio creativo grazie anche al “fattore
marca” che dà al prodotto un senso e un’esistenza
immateriale e discorsiva. Essa deve essere in grado di
raccontare storie credibili, attinenti e costanti nelle quali il
consumatore può immedesimarsi.
La comunicazione di moda fa uno sforzo passando
dalla comunicazione del prodotto a quella di un’identità.
L’impresa comunica, cioè, attraverso il proprio
mondo, sulla base della propria identità mirando
all’attenzione e al riconoscimento del consumatore finale.
Elemento chiave è il concetto di shopping
experience: il rapporto tra marca e consumatore si
istituisce e si rafforza grazie ad una relazione che passa
attraverso la proposta di vissuti inediti e l’attivazione di
diversi canali di comunicazione e forme di linguaggio più
sofisticate, allusive, deduttive che riescono e rendere
tangibile il mondo della marca.
Di questa esperienza il prodotto rappresenta spesso
solo un tassello, all’interno di un più generale ambiente
comunicativo che deve essere in grado si sedurre i sensi e
stimolare la mente. Quest’ultimo è costituito
principalmente dal moderno punto di vendita, inedito
teatro del nuovo shopping postmoderno e canale
alternativo per contattare un consumatore dai bisogni
molteplici e a rischio di overdose informativa.
Per distinguersi dalla massa ed avere successo è
indispensabile fornire al cliente l’opportunità di vivere
esperienze nuove, accogliendolo in luoghi familiari ed
emotivamente coinvolgenti, spazi relazionali e di svago,
in grado di attirare l’attenzione per la forte personalità di
cui godono..
Emerge, dunque, la necessità di trarre il massimo
vantaggio possibile dall’enorme potenziale di
comunicazione costituito dal punto di vendita, sempre più
spesso considerato dalle stesse imprese risorsa intangibile
di immagine.
La mia carta d'identità digitale...........................
Non ricordo di preciso quando ho iniziato ad interagire con la tecnologia,ma ricordo con piacere quando rubavo la consolle del nintendo a mio fratello per capire meglio come funzionasse e se fossi capace ad usarla.Avvolte combinavo dei veri e propri pasticci,ad esempio la bloccavo,ma questo era un motivo in più per continuare,testarda com'ero da piccola.!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Invece il mio approccio con il pc è stato problematico anche perchè non sapevo mai con certezza se quello che andavo a fare fosse giusto o meno,ho avuto sempre un pò di timore ad usarlo con disinvoltura,ma poi grazie ai diversi corsi seguiti in questi anni passati all'università,mi sono resa conto che per imparare qualcosa di più sul pc,bisogna starci e se si sbaglia non avere paura perchè tutto si può risolvere.
Ho finalmente capito che per poter scaricare file,musica,immagini,film o semplicemente chattare con gli amici lontani,non bisogna essere dei geni dell'informatica,ma basta metterci quella passione e quell'interesse che servono quando si affrontano situazioni nuove.
Posso dire che ora per me è diventato piacevole stare seduta davanti al pc ed esplorare quel meraviglioso mondo che esso contiene,che permette di abbattere qualsiasi barriera spazio-temporale e di arrivare fino all'altro capo del mondo.
Non ricordo di preciso quando ho iniziato ad interagire con la tecnologia,ma ricordo con piacere quando rubavo la consolle del nintendo a mio fratello per capire meglio come funzionasse e se fossi capace ad usarla.Avvolte combinavo dei veri e propri pasticci,ad esempio la bloccavo,ma questo era un motivo in più per continuare,testarda com'ero da piccola.!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Invece il mio approccio con il pc è stato problematico anche perchè non sapevo mai con certezza se quello che andavo a fare fosse giusto o meno,ho avuto sempre un pò di timore ad usarlo con disinvoltura,ma poi grazie ai diversi corsi seguiti in questi anni passati all'università,mi sono resa conto che per imparare qualcosa di più sul pc,bisogna starci e se si sbaglia non avere paura perchè tutto si può risolvere.
Ho finalmente capito che per poter scaricare file,musica,immagini,film o semplicemente chattare con gli amici lontani,non bisogna essere dei geni dell'informatica,ma basta metterci quella passione e quell'interesse che servono quando si affrontano situazioni nuove.
Posso dire che ora per me è diventato piacevole stare seduta davanti al pc ed esplorare quel meraviglioso mondo che esso contiene,che permette di abbattere qualsiasi barriera spazio-temporale e di arrivare fino all'altro capo del mondo.
sabato 16 maggio 2009
Dunque la moda viene vista come un grande mezzo comunicativo,essa con i suoi colori,le sue forme attraversa gli anni,i secoli,abbattendo qualsiasi barriera.Contestata,amata,seguita,riesce sempre ed ugualmente ad essere di grande impatto.Attraverso la moda passano messaggi differenti,alcuni positivi,altri ancora negativi.Primo fra tutti il tabù dell'anoressia,che porta la maggior parte delle modelle a seguire determinati standard fisici,lontani dai canoni di bellezza di quelle modelle cosiddette"burrose" tanto osannate nei lontani anni '60 che a lungo hanno attraversato l'immaginario maschile del tempo.
comunicare con la moda
La storia di questo particolare fenomeno offre un punto di vista privileggiato per studiare la confluenza di molti elementi:l'intreccio continuo tra l'evolversi della storia,delle idee e quella del pensiero economico,l'incidenza del progresso scientifico,il meccanismo di influenza reciproca che caratterizza l'attuale rapporto tra massmedia e consumatore.Potenza,pudore,ornamento sono i tre caratteri principali del vestirsi che si inseriscono in un sistema formale di segni organizzato in funzione normativo.Primo tra tutti quello della differenza dei generi(maschio-femmina),enfatizzato dalla componente erotica,con la sua carica esibizionista e il desiderio di piacere.La storia della moda muove i primi passi a partire sulla polemica Illuminista sul lusso alla fine del Settecento,perchè persistette come elemento centrale della critica alla moda,unito alla constatazione del suo carattere effimeroe non duraturo(si pensi per esempio a G.Leopardi delle Operette morali,dove la moda e la morte sono le figure emblematiche della caducità).Proprio alla fine del Diciottesimo secolo,si assiste ad un aumento di spese generali per il vestiario,confermato dalla nascita delle riviste di moda.
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