venerdì 3 luglio 2009

La moda spettacolo come mezzo di comunicazione
Nel 1996 Yves Saint Laurent lo chiamava il "circo fantasmagorico dei defilè" e, indignato, decideva di presentare la collezione a casa propria.Gossip e mondanità cannibalizzavano la moda già dieci anni fa e, a rimetterci era l'abito. Non ci mise molto a capirlo il grande couturier francese che, per primo, volle dare l'esempio e voltare le spalle a una realtà, quella delle sfilate, che si riduceva a un mero spettacolo, ad uno show concepito perché televisione e media potessero puntare su di esso i propri riflettori. Non era l'unico a pensarla in questo modo. Persino il Re, Giorgio Armani, in un articolo comparso su Repubblica nel lontano 1995 dichiarava che «si continua a voler stupire, dimenticando i valori della moda». E faceva notare che la competitività fra stilisti si andava perdendo per dare spazio alle provocazioni, alla voglia di stupire e agli avvenimenti di contorno. «Dove si arriverà?» si chiedeva lo stilista. Dove siamo arrivati oggi è più che evidente. Basta guardare all'ultima settimana della moda milanese per capire come lo spettacolo della moda, che un tempo si manifestava nelle ricercate fogge, oggi si esplicita nelle prime file delle passerelle. Se dieci anni fa gli stilisti si fronteggiavano a colpi di abiti, oggi fanno a gara a chi mette in scena lo show più chiacchierato. E così Roberto Cavalli si mette a giocare con le bambole, vestendo le Spice Girl per il loro tour e ospitandole, naturalmente, alla propria sfilata. E mentre Donatella Versace continua a mandare in passerella centinaia di chiome bionde per convincere il mondo che lei è icona di stile, Dolce & Gabbana attirano l'attenzione sul clima mondano del dopo passerella al "Gold", il loro ristorante.La moda è sempre stata un mezzo di comunicazione. Secoli di storia narrano come l'abito sia lo specchio della società e come le fogge siano state occasione di spettacolo. Ma di uno spettacolo insito nell'abito. Nel 1964 Pierre Cardin faceva l'allegoria del cambiamento sociale facendo sfilare una serie di abiti futuristici fatti di materiali inorganici in una collezione denominata "Era Spaziale". Ed era stupore. Negli anni ‘70 Issey Miyake introduceva un concetto: quello di coprire il corpo con un unico pezzo di stoffa che cambia forma a seconda dell'individuo, perché ogni essere umano è unico.
Negli anni ‘80 Yohji Yamamoto esprimeva il proprio senso di assenza attraverso abiti strappati e privi di decorazioni, mentre Martin Margiela rappresentava il suo dissenso nei confronti del sistema moda riciclando le sue precedenti collezioni. La lista degli stilisti che, come quelli sino a qui citati, hanno messo in scena uno spettacolo per comunicare un concetto attraverso l'abito è molto lunga. Da Paco Rabanne ad Alexander McQueen a Jean-Paul Gaultier a Vivienne Westwood a Thierry Mugler la teoria si allunga a dismisura. Un elenco che si cosparge di polvere di stelle e che è opportuno interrompere per non dare adito a lacrime di commozione nostalgica. Siamo realisti: guardiamo alle passerelle di oggi, che sono tutt'altra cosa. Molti stilisti sembrano seguire dei veri e propri manuali di marketing e tecniche di comunicazione prima di mandare in scena una collezione. Lo scopo è chiaro: colpire il pubblico, comunicare e, magistralmente, ad ogni costo, sublimare.La moda diventa spettacolo, panem et circenses della società dei consumi, dove il trofeo spetta a colui che trova il modo più geniale per persuadere. Dove succede che qualcuno sceglie di trasformare in passerella persino la Grande Muraglia Cinese, portando sugli schermi di tutto il mondo molto più che uno straordinario show. Essì, perché quelle strepitose modelle che sembrano "tacchettare" frivole sopra secoli di storia, sono in realtà allegoria di un futuro prossimo in cui nulla è impossibile. Un futuro dove le ricostruzioni scenografiche di John Galliano rischiano di restare un ricordo romantico e mellifluo, e dove l'impegno sociale e politico di Vivienne Westwood viene surclassato da eventi mediatici di risonanza mondiale. Non è difficile che il motto "No art, no progres" della stilista punk inglese passi in secondo piano nell'agenda setting dello spettatore, affascinato da forme tutte nuove di spettacolarizzazione della realtà.
Quando persino Ground Zero diventa background di brindisi post "front row", è chiaro che la voglia di dimenticare supera di gran lunga la lotta sociale. Come è chiaro che i disastri mondiali si trasformano tristemente in semplice memorabilia per un nuovo e irriverente spettacolo.

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